Di quella sera d'estate di vent'anni fa il ricordo più vivo è il boato dell'esplosione. Un botto secco, cupo, spaventoso. Diverso dal rotolare del tuono, diverso dal fragore festoso del colpo che chiude i fuochi artificiali. Un boato subito inquietante, prima di capire, prima di sapere. Da via Palestro attraversò la città lungo percorsi misteriosi: in alcuni palazzi relativamente vicini non fu quasi avvertito, in altri, a chilometri di distanza, arrivò portando quasi amplificato il suo terrificante e oscuro messaggio. Di bombe ce n'erano già state quell'anno: prima a Roma, il 14 maggio, poi a Firenze, il 27, con i 5 morti di via dei Georgofili. Cinque morti come a Milano in via Palestro.
Impossibile capire di chi fosse la mano assassina. In quei mesi era successo di tutto. L'anno prima l'inchiesta Mani Pulite aveva terremotato il sistema politico e le scosse non si erano più fermate, avevano continuato a provocare crolli nelle istituzioni, a devastare partiti, a distruggere vite e carriere (proprio in luglio si suicidarono Gabriele Cagliari a San Vittore e Raul Gardini nella sua casa di Milano). Intanto l'economia andava a rotoli: disoccupazione giovanile al 40 per cento al Sud e al 15 al Centro Nord, tasso di sconto al 10 per cento, marco tedesco alle stelle (ci volevano 983 lire) e l'Iri con 74 mila miliardi di debiti. In febbraio il ministro della giustizia Martelli si era dimesso per un avviso di reato. Nello stesso mese Craxi, indagato, aveva lasciato la guida del Psi, poi era arrivato un avviso di reato ad Andreotti e la Lega al grido di «Roma ladrona» trasformava in voti l'insofferenza dilagante. Erano i giorni del cappio agitato dal Carroccio sui banchi della Camera e delle monetine contro Craxi davanti all'hotel Raphael.
La «Milano da bere» era evaporata e al suo posto si era materializzata Tangentopoli. A palazzo Marino la giunta del galantuomo Borghini era crollata sotto lo sciame sismico di «Mani Pulite»: su 80 consiglieri divisi in 19 gruppuscoli, già 11 (di maggioranza e d'opposizione) erano finiti sotto inchiesta; il capogruppo socialista, Zaffra, era stato arrestato all'uscita di un ristorante dove aveva pranzato con il sindaco. E in galera erano finiti anche il presidente della Sea, Faletti, e quello della MM, Dini. Di fronte all'arresto di un assessore in carica, il socialdemocratico Giuncaioli, Borghini aveva gettato la spugna e al governo di Milano era arrivato un commissario prefettizio, Claudio Gelati (vice commissario Bruno Ferrante e sub commissario Annamaria Cancellieri). Alle successive elezioni la Lega conquistò palazzo Marino e Formentini divenne il primo sindaco a elezione diretta.
Il 26 luglio, il giorno prima della strage, un imprenditore di mezz'età, tale Silvio Berlusconi, dichiarò in un'intervista a La Stampa di voler «dar vita a un'associazione di ricerca e di impulso al fine di individuare i candidati più vicini all'idea liberaldemocratica». Ma aggiunse: «Non credo di potermi impegnare personalmente. Il mio mestiere è quello dell'editore e la mia regola è rappresentare tutte le opinioni senza parteggiare per nessuno». Sembra passato un secolo, ma molti dei personaggi di allora sono gli stessi di oggi e ora come allora di fronte alla crisi economica c'è chi punta alla scorciatoia dell'antipolitica. Possibile che non abbiamo imparato nulla?