Quel botto, l'enorme esplosione dell'autobomba di via Palestro, non potevano certo sentirlo. Magari lo hanno immaginato, chiusi nella villa bunker di Forte dei Marmi, mentre aspettavano che il telegiornale desse notizia dell'attentato. Alle 23,14 del 27 luglio 1993 Giuseppe e Filippo Graviano, capi di Cosa Nostra del quartiere Brancaccio di Palermo e mandanti della strage di via Palestro, si stavano godendo una latitanza dorata sulle spiagge della Versilia. I loro uomini, intanto, seminavano terrore a Milano e Roma.
LA CACCIA AI GRAVIANO - Polizia e carabinieri di tutta Italia stanno dando la caccia ai fratelli Graviano dagli attentati a Falcone e Borsellino. I giovani boss (Filippo è del '61, Giuseppe del '62) però in quel momento non sono in Sicilia. Ai dettami della «vecchia mafia» preferiscono l'anonimato garantito dal «continente». Non è un caso che un anno dopo le stragi i Graviano vengano arrestati proprio a Milano, in via Procaccini 45 al ristorante «da Gigi il Cacciatore». Sono qui con le fidanzate, abiti eleganti e locali alla moda. I carabinieri del nucleo operativo di Palermo hanno seguito i movimenti del padre del calciatore Gaetano D'Agostino, salito a Milano per proporre il figlio alle giovanili del Milan. Sono le 20.10 del 27 gennaio 1994, i militari armati irrompono nel locale, mentre altri, confusi tra i clienti, impugnano le pistole. Giuseppe Graviano ha in tasca la carta d'identità di un tale Salvatore Spataro, il fratello si fa chiamare invece Filippo Mango. Un anno dopo la strage i mandanti dell'attentato sono a Milano. Non hanno armi né guardaspalle, non vivono rintanati in un bunker ma si confondono tra imprenditori e uomini d'affari. Ma il duplice arresto dei boss stragisti a Milano non è un colpo di scena per gli inquirenti del Centro Dia di Milano che, a meno di dodici mesi dall'attentato, già hanno imboccato una pista che porterà alla luce una rete di insospettabili dietro il commando dell'attentato.
IL RE DI SAN SIRO E IL BOOKMAKER - L'elenco degli insospettabili parte proprio da «Gigi il Cacciatore». Il locale è gestito da Elio Boi un nome noto nella malavita milanese. Dopo l'arresto dei Graviano, Boi finisce in carcere per traffico di eroina. Racconta però di non aver mai visto quei palermitani e, smentito da un cameriere, dice agli investigatori che i Graviano s'erano presentati un'altra volta nel locale, ma come clienti qualsiasi. Oggi Elio Boi ha pagato il suo conto, ha nuova vita e un nuovo ristorante nella zona di via Cenisio. Ma torniamo a quella notte in Versilia. Gli uomini della Dia scopriranno di quella villa in Toscana solo due anni più tardi. Quando, nel '96, nelle indagini sui favoreggiatori della latitanza dei Graviano finisce in manette Enrico Tosonotti. È un imprenditore milanese che gestisce una scuderia all'Ippodromo. Ex proprietario del mitico cavallo Little toy , Tosonotti è accusato d'aver versato un assegno da 25 milioni di lire per l'affitto della villa a Forte dei Marmi. Gli informatori dicono ai poliziotti che Tosonotti è vicino a Marcello Dell'Utri. Nelle indagini finisce anche un bookmaker palermitano Agostino Imperatore. Tosonotti rivela che il bookmaker è in ottimi rapporti con Tanino Fidanzati, il narcotrafficante di Cosa Nostra da trent'anni a Milano. Tramite Imperatore spiega d'aver contattato Micciché che all'epoca era sottosegretario ai Trasporti, per una questione di appalti nelle Ferrovie. Nient'altro. Il rapporto tra Tosonotti e gli uomini vicini a Dell'Utri si esauriscono qui. Nessun reato. L'inchiesta sui favoreggiatori dei Graviano a Milano di fatto, però, non s'è mai chiusa. L'ultima pista investigativa è passata attraverso i rapporti tra Dell'Utri, le figlie dello stalliere di Arcore Vittorio Mangano e i legami dei fratelli Di Grusa (uno ha sposato una figlia di Mangano) con ambienti di Cosa Nostra. Alessandro Di Grusa è stato arrestato con l'accusa d'aver favorito la latitanza a Milano del boss palermitano Gianni Nicchi catturato il 5 dicembre 2009. Condannato in primo grado a 12 anni è stato definitivamente assolto dalla Cassazione a luglio 2012. Anche il filone d'indagine milanese s'è chiuso con l'archiviazione. Ma per gli inquirenti la certezza è una sola: i Graviano si muovevano in libertà a Milano e avevano covi sicuri. Così come gli uomini del commando di via Palestro che, contrariamente a quanto scritto nelle sentenze sulla strage, conoscevano Milano e la continuarono a frequentare anche dopo l'attentato. Da qui il sospetto che potessero godere di una rete di protezione solida e affidabile, la stessa che ha «custodito» i fratelli di Graviano.
LA DROGA E IL COVO DI VIA BALDINUCCI - Torniamo per un attimo alla sera del 27 luglio '93 e a quella telecamera che in via Melzo riprende la «fuga» da una sala biliardo di Robertino Enea, capo della «decina» di Cosa Nostra a Milano. In quel periodo gli inquirenti della Dia stavano indagando su un giro di droga tra Palermo e Milano. Enea e i vertici palermitani di Cosa Nostra trafficavano fianco a fianco. Possibile che gli uomini della mafia a Milano non sapessero nulla della bomba? Dalle indagini, che proprio da quelle immagini erano partite, non è emerso niente di certo, nessun legame con gli stragisti. Ma perché Robertino Enea scappa dopo l'esplosione? Mistero. Eppure come racconta oggi chi condusse quelle indagini, gli uomini di Enea avevano un «covo» dove nascondevano la droga proprio in via Baldinucci, alla Bovisa. Il luogo dove il pentito Gaspare Spatuzza dice d'aver rubato l'auto per via Palestro. Coincidenza? Secondo le sentenze di Firenze sulle stragi del '93 i siciliani che da più di trent'anni s'erano trasferiti a Milano facendo sequestri di persona e trafficando eroina, di quelle bombe non hanno mai saputo nulla. Solo i Graviano e i loro fedelissimi conoscevano il piano stragista. A Milano di fatto, come ha chiarito Spatuzza, agirono nella fase preparatoria Pietro Carra (che portò l'esplosivo), Cosimo Lo Nigro (l'artificiere), lo stesso Spatuzza che rubò l'auto e Francesco Giuliano. Tutti però rientrarono a Roma il 23 luglio. La data dell'attentato fu infatti posticipata di quattro giorni perché nella Capitale c'era una festa di quartiere sul percorso studiato per l'attentato. Per questo l'autobomba, racconta sempre il collaboratore di giustizia, venne custodita e poi «piazzata» in via Palestro da Giovanni Formoso, Vittorio e Filippo Marcello Tutino (quest'ultimo indagato solo di recente). Possibile che abbiano agito solo tre persone, peraltro con il solo Filippo Marcello Tutino che conosceva bene la città? TRAFFICI A MILANO DOPO LA STRAGE Ma c'è di più. Nel 1995 si scopre che gli stragisti non hanno abbandonato Milano. Dopo la bomba Cosimo Lo Nigro traffica droga sotto la Madonnina. E con lui c'è ancora il camionista Carra. Il suo Tir ha portato l'esplosivo nel '93 e la tratta via terra da Palermo a Milano ha così buone coperture che non viene, incredibilmente, abbandonata. I siciliani trafficano hashish in cambio di armi con calabresi legati alla 'ndrangheta. La base è dalle parti di viale Fulvio Testi, alcuni summit avvengono all'ingresso dell'aeroporto di Bresso. La droga viene venduta a Giuseppe Nirta e Antonio Palumbo e in cambio - come confermerà in aula durante il processo Francesco Messina, allora alla Dia e oggi questore -, i palermitani non volevano soldi ma armi. A Palumbo viene sequestrato un biglietto con l'ordinazione: mitra mini-Uzi , Kalashnikov , pistole e lanciamissili. Gli inquirenti filmano la partecipazione Di Lo Nigro al battesimo della figlia di Nirta a Cusano Milanino. Le indagini del pm Marcello Musso portano nel 2001 a 13 ordinanze di custodia. Giuseppe Nirta però riesce a sfuggire all'arresto e a darsi alla latitanza. Lo prendono i carabinieri di Desio tre anni dopo a Cusano Milanino. In questi giorni in Calabria è stato avviato un nuovo filone di indagine sulla «trattativa» Stato-Mafia. Il sospetto è che i boss calabresi abbiano dato «appoggio logistico» per le stragi pur senza condividerne le finalità. Fu così anche a Milano?